Questa intervista si è svolta in una giornata particolare, in un venerdì non qualunque. Mentre nelle città ci si apprestava a scioperare per il riscaldamento globale, con Davide Mulloni, agrotecnico, si è parlato molto anche di clima, di sostenibilità, di rispetto e di attenzione alla terra.


“Il Festival del Potatore è un’occasione per dare visibilità alle buone pratiche agricole, in primis la gestione del legno, fondamentale per evitare rischiose criticità e conseguenze dei tagli di potature invernali, lavorando nella prevenzione contro il deperimento dei vigneti. Il bello di questa giornata è la dimensione di festa che ha assunto, per cui oltre agli addetti ai lavori vi sono anche famiglie e ampio spazio viene dedicato anche ad attività collaterali legate al mondo agricolo. Ho partecipato al Festival con un occhio molto attento, perchè sempre di più lavorare in agricoltura e in vigna sta diventando complesso: bisogna saper interpretare la stagionalità, i cambiamenti climatici, e in generale aggiornarsi e apprendere dalle buone pratiche altrui”.
Parliamo ora di un tema a te molto caro e che ha di sicuro catalizzato la tua attenzione nel corso del Festival: l’utilizzo del cavallo in agricoltura…

Questa pratica, insomma, è sostenibile, e si rifà all’approccio biodinamico…
“Esatto, il cavallo in un’azienda biodinamica completa il ciclo della vita, è l’animale che lavora insieme con l’uomo, fianco a fianco in un rapporto di muta complicità. Non si deve pensare che sia un andare indietro nel tempo o un modo per contrastare la tecnologia moderna, anzi è l’esatto opposto: è futuristico, è un precorrere i tempi, è guardare oltre, una sorta di ponte ideale tra passato e futuro. E non si deve nemmeno pensare che questo utilizzo comporti da subito un vantaggio: con queste bestie, cavalli da tiro, bisogna avere molto pazienza, il tempo che vi si deve dedicare è sicuramente tanto, ma i frutti di tutto questo impegno si raccolgono nel medio lungo periodo. Tra dieci anni la cura della terra darà forza alle nostre piante, ma nel frattempo è necessario monitorare e anche questo è un aspetto del mio lavoro”.
Oltre ai cavalli, cos’altro ti ha incuriosito al Festival?
Sicuramente la tecnica dell’endochirurgia, ricerca e sviluppo puri. La vite, come le persone, soffre di varie patologie, tra di esse vi è un fungo, che si chiama mal dell’esca. Esso va a ostruire le arterie della pianta e in due o tre anni la pianta muore. Questa tecnica, già applicata in via sperimentale in Franciacorta, prevede di lavorare sul midollo della pianta, sulla parte malata, andando a rimuoverla. Così la pianta si può salvare”.

Insomma, da questo Festival ti sei portato a casa un sacco di “spunti” interessanti…
“Sì, ma soprattutto la conferma del mio “motto”: collaborando si vince, soprattutto in un settore complesso come quello dell’agricoltura”.